La cura dello sguardo è il titolo dell’ultimo libro di F. Arminio, un testo prevalentemente in prosa ma di una prosa, a tratti, poetica che tende più a suggerire o evocare che non a descrivere, com’è della scrittura in versi per la quale Arminio forse è più noto e di cui ci regala, anche qui, qualche pagina che sapientemente, mai a caso, si alterna alle altre.
Il testo non è un saggio e non vuole esserlo: il saggio, per la sua organicità, non è nelle corde dell’autore in cui, da poeta, è forte la vibrazione del sentire, la corporeità dell’essere di ogni cosa nella sua struggente immediatezza a cui il poeta dà voce come a volerne dire il respiro.
Personalmente definirei il testo un’autobiografia perché se è vero che in ogni scrittura c’è sempre autonarrazione, è anche vero che il dire di sé, alla maniera degli Essais di Montaigne, può essere il dire che viene dal sentirsi parte di una comune umanità. E questo mi sembra lo stile di F. Arminio. Il rapporto di un autore con se stesso, infatti, non è detto che definisca lo spazio chiuso di un racconto solipsistico, esso può anche dischiudere quello di un’ideale agorà sempre aperta all’incontro con l’altro in virtù della parola perché, come dice Arminio, “la lingua è una grande cura” e “chi cerca le sue parole non si ammala”.
Il carattere autobiografico del testo, nella modalità appena chiarita, si annuncia nelle prime pagine dove l’autore si presenta mediante un’ “autocertificazione” in versi ed il racconto di una “biografia dell’ansia”, ma esso non viene smentito nelle successive dove l’io continua a narrarsi, a volte, senza veli, altre, all’ombra di una sorta di coralità in cui l’io, identificandosi con un noi, si ridimensiona nella sua individualità, ma si esalta nel riconoscimento di un’universalità che lo comprende: “Abbiamo un paesaggio interiore solo in apparenza diverso” per cui, afferma ancora Arminio “Io mi curo guardando fuori”. E qui siamo nel cuore della questione. Il parlare come il guardare hanno un grande potere: possono ferire e sanare; sono essi stessi “il guasto” e “il rimedio” che Arminio nella scrittura ricompone. Lo sguardo poi che precede la parola, che è la prima parola ancora “muta” che rivolgiamo al mondo merita, esige, particolare cura perché non le cose, i fatti, ma la visione che ne abbiamo dà colore alla nostra vita o la ingrigisce; con essa si identifica il nostro essere nel mondo e la relazione che con esso teniamo, una relazione imprescindibile che permane anche quando volessimo negarla perché non è altro da noi.
Secondo un antico mito narrato nelle sue Fabulae da Igino e ripreso da Heidegger, l’impasto di cui siamo fatti è opera di un essere chiamato Cura a cui Zeus ci avrebbe poi affidati, essendone lei l’artefice. A Cura si deve quindi la nostra origine ed è lei che ci accompagna; per questo, la cura è un modo di fare e, prima ancora, d’essere declinabile in diversi modi. La cura dello sguardo, in quanto del nostro rapporto col mondo, comincia dal prestare attenzione, dall’essere presenti e non distratti, perché l’attenzione non è solo un gesto cognitivo, ma, come nota la Mortari, in quanto investe l’altro, è etico. Per questo è bello e giusto, è un diritto-dovere, riappropriarsi di sé a partire da tutti i propri sensi che consentono di guardare e vedere, sentire e ascoltare, toccare e conoscere, annusare per respirare gli odori, gustare per visitare i sapori, in una parola: vivere.
C’è un’antica scissione da sanare, quella per cui non siamo un “testo” unitario, ma un’anima imprigionata in un corpo, c’è un’unità da recuperare, una pienezza da cui ripartire per onorare il tempo che ci è dato e viverlo con intensità e rispetto, senza abusarne come non fosse un valore e senza trascurarlo come non fosse a termine, sapendo che non la precarietà che lo impreziosisce, ma il vuoto, lo offende.
Arminio ha compiuto 60 anni lo scorso febbraio, di lì a poco il lockdown; credo che queste due circostanze che impongono entrambe delle distanze, abbiano contribuito alla gestazione di questo libro che alla maniera del quadrifarmaco epicureo vuole essere una medicina, vuole fornire un antidoto contro le nostre paure, soprattutto quella della morte che di tutte le altre è la madre. Epicuro per consolarci diceva: “Nulla è per noi la morte; quando noi ci siamo, lei non c’è; quando c’è lei, noi non ci siamo”. Ma questo per noi uomini, heideggerianamente “esseri della lontananza”, che da Prometeo abbiamo ereditato la tendenza a prevedere, a pre-occuparci, non basta. La morte ci abita molto prima di venire in un’attesa che ci visita, anche senza invito, inchiodandoci alla difficile convivenza con l’idea del “mai più”.
L’intensità dello sguardo che sa trovare la bellezza può aiutarci. Ammirare che è accarezzare con lo sguardo, immaginare che è vedere quel che non è ancora, ricordare che è rivedere quello che non più: è questo un modo per Esserci. “ E’ bello il tempo quando non scappiamo” ed è sempre lui, il tempo che “c’insegna qualcosa”.
Maria Liberti
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